martedì 25 dicembre 2012

Ero carcerato e mi siete venuti a visitare” (scrive Maria)

Secondo  dati   ufficiali  al   giugno   del   2011   la   popolazione   carceraria   del   Brasile   era   di 496.251 carcerati, 40% dei quali provvisori, in attesa di giudizio: tra il 2000 e il 2010, il 
numero di carcerati in tutto il Paese è raddoppiato di numero.
Nel Maranhão la stima è di circa 6.000 detenuti; le cause principali di detenzione sono, in  ordine: spaccio di droga, furto e assalto, uso di armi e omicidio.

Una cosa è certa: la sovrappopolazione carceraria rimane una realtà in tutto il Brasile, e le condizioni a cui sono costretti a vivere detenuti e detenute sono, il più delle volte disumane e impietose.

È molto recente la dichiarazione del ministro della giustizia Josué Eduardo Cardozo che, parlando delle condizioni del sistema penitenziario brasiliano, ha detto: “preferirei morire piuttosto che scontare la pena in alcuni presidi brasiliani, dove persone sono accalcate senza nessuna dignità, vivendo tra le feci, subendo aggressioni e senza i diritti umani rispettati”.

Risale al 2008 la CPI (Commissão Parlamentar de Inquérito - Commissione Parlamentare d’inchiesta   )   promossa   dal   governo   federale   per   verificare   la   situazione   delle   carceri brasiliane:   corruzione,   impunità,   crimine   organizzato   all’interno   stesso   delle   carceri, violazione dei diritti umani basilari sono alcuni degli elementi rilevati durante gli otto mesi di attività della Commissione (1)

Nel 2011 Amnesty International denunciava ancora l’utilizzo di pratiche di tortura da parte di forze dell’ordine e di funzionari all’interno delle carceri e delle stazioni di polizia, al momento dell’arresto, durante gli interrogatori e lungo il periodo di detenzione.
In generale si può affermare che il problema del sistema penitenziario, pur essendo al centro di molti discorsi, rimanga, a tutti gli effetti, ai margini degli impegni politici e degli interessi della società.

E “ai margini”, effettivamente,   os   presos   (“i   presi”   ossia   i   detenuti)   lo   sono    anche fisicamente: il carcere di São Luis, per esempio, si trova a 15 kilometri dal centro, lungo la strada  che  conduce  fuori dell’isola, in  un’area di  122  ettari dove   è stato  costruito  un complesso che riunisce in pochi kilometri quadrati la maggioranza dei centri di detenzione di tutto lo Stato. È il famoso “Complexo de Pedrinhas”.

Quando ho iniziato a visitare il presidio femminile con il gruppo di Pastorale Carceraria non sapevo bene cosa mi sarebbe aspettato, cosa avrei dovuto fare o dire.
Non sapevo cosa mi spingeva a farlo: forse la voglia di conoscere una realtà nuova, forse il   desiderio di avvicinarmi per capire se il reo di crimine è spaventoso come ce lo figuriamo. Forse, semplicemente, la curiosità di vedere come sia possibile sopravvivere privati della libertà: difficile per chiunque immaginare una vita rinchiusa tra quattro mura, vedendo il sole   attraverso le grate anche durante l’ora d’aria e pensare che questa condizione possa durare mesi e anni.



-Il complesso di Pedrinahs come appare dall'esterno -

Nella testa avevo i racconti delle gente: le storie della ribellione successa un paio di anni fa  all’interno  del  carcere maschile, le descrizioni  delle  donne  costrette  a  perquisizioni vessatorie quando visitano i parenti, i pregiudizi nei confronti del carcere, recipiente dei peggiori delinquenti e “scarti della società”. Insomma, nulla di buono: “meglio che restino là dove non li possiamo vedere!”.
Quello che ho incontrato, nei fatti, sono state persone con una vita nel mondo fuori, e costrette   a convivere in uno spazio ristretto con gente mai conosciuta prima per ventiquattro ore al giorno: donne con una storia, dei figli, una famiglia.
Anche se, per fortuna, le condizioni abitative non sono pessime e disumane come in altri presidi, le storie che ascoltiamo sono sempre di sofferenza, sono parole tristi, a volte angosciate. 

Il sistema progressivo di esecuzione della pena, rende la possibilità di abbreviare il tempo di   detenzione   una   speranza   che   incentiva   molte   a   partecipare   delle   poche   attività promosse dalla direzione e a mantenere una buona condotta: ciò nonostante, il tempo in un carcere trascorre sempre lento e, vista la precarietà di vita dentro di una cella, gli stati d’animo negativi, la disperazione e lo sconforto bussano alla porta quasi tutti i giorni.
Nonostante il proposito di cambiare condotta per non finirci di nuovo in un posto come quello, alcune, purtroppo, in carcere ci sono già passate più di una volta: d’altronde, è proprio il contesto sociale in cui vivono e al quale ritornano, che induce, nella prevalenza dei casi a compiere il crimine (spesso legato allo spaccio di droga e sostanze stupefacenti) e a ricaderci nel giro di poco tempo. 
Sono persone, il più delle volte, già escluse dai cosiddetti circoli sociali nel mondo esterno, di   estrazione sociale bassa, povera, poco o per nulla scolarizzata,  spesso afro-discendente.
Nell’ala delle “provvisorie”, ad esempio, la maggioranza delle donne è in attesa da mesi di una sentenza (il tempo massimo dovrebbe essere di tre mesi): molte si affidano alla difesa d’ufficio   perché pagare un avvocato è privilegio solo  di chi può permetterselo e già sappiamo che chi i soldi ce li ha, di solito, in carcere non ci finisce nemmeno.
Quelle che facciamo sono visite semplici: una chiacchiera, una canzone, alle volte la celebrazione della Messa. 
Gli incontri avvengono durante il  banho de sol  (l’ora d’aria): metà delle donne, di solito, può uscire dalle celle, mentre le altre restano “dentro”.
La nostra è una presenza poco rumorosa, discreta: ascoltare una storia, dire una parola di conforto, dare un abbraccio durante un momento difficile ma essere anche un sostegno, informarsi dall’assistente sociale del perché una ragazza detenuta non è stata ancora visitata dal medico, portare uno spazzolino o dei vestiti a chi non sta ricevendo visite dei parenti. Tutte piccole azioni che, però, possono fare la differenza.

In tutto ciò quello che sto cercando di imparare è un nuovo modo di prendermi cura delle persone  che  incontro, senza  porre troppo l’attenzione  su quello che di male abbiano compiuto ma guardando con occhi diversi donne e ragazze che, nella loro vulnerabilità, stanno passando attraverso sofferenze e difficoltà.

Commettere un crimine e infrangere la legge richiede un risarcimento, un pagamento alla società: non è semplice superare l’ostacolo del preconcetto che riguarda un detenuto. 
Porre l’attenzione sulla persona  prima che sul crimine che ha commesso non è un passaggio facile né immediato: in qualche modo e in certi momenti la legge de taglione prende il sopravvento nei nostri ragionamenti. 
“Andare oltre” l’azione compiuta per guardare la storia, la vicenda umana, i sentimenti della persona che, nella maggioranza delle volte, coltiva un’immagine di sé negativa e autodistruttiva significa, prima di tutto, riporre fiducia in lei credendo che un futuro diverso e migliore può essere contemplato.
La Pastorale Carceraria, per quanto riconosciuta e rispettata, non è che un piccolo colibrì che tenta di spegnere un incendio: eppure con la sua presenza costante e fedele nelle carceri deve continuare ad affermare che compimento della pena non significa solo esecuzione di un castigo(2). 

Il periodo di detenzione dovrebbe trasformarsi in una possibilità effettiva di redenzione e educazione per queste persone: e il carcere, così come è pensato, è molte volte solo luogo privilegiato per formare delinquenti e criminali.
Mi piacciono le parole che ho letto poco tempo fa in un libro che affrontava l’argomento del sistema penitenziario: “È al cuore del delinquente che, per guarirlo, dobbiamo arrivare(…) La mancanza di amore non si riempie se non con l’amore. L’amore con l’amore si paga. La cura di cui il prigioniero ha bisogno è una cura di amore”.

(1) se qualcuno fosse interessato può guardare:
      http://www.youtube.com/watch?v=uKD0s0Qhxd4
(2) la storia racconta che un giorno nella foresta scoppiò un incendio talmente vasto che nessuno riusciva a spegnerlo: il colibrì, pur nella sua piccolezza, cominciò a volare dalla cascata al fuoco trasportando semplici gocce d’acqua. Il suo coraggio fu esempio per il resto degli animali a fare la loro   parte   e   a   salvare,   infine,   la   foresta.   L’insegnamento   è   che   non   importa   se   l’incendio   si spegnerà, l’importante è fare tutto quel che è possibile perché questo avvenga.