giovedì 16 gennaio 2014


BRASILE: EMERGENZA CARCERI
il breve racconto degli ultimi avvenimenti nel sistema penitenziario di São Luis nel Maranhão

http://www.youtube.com/watch?v=0AfYHn1AmM8

giovedì 19 dicembre 2013

FELIZ NATAL!!!


"Nessuno nasce odiando i propri simili a causa della razza, della religione o della classe alla quale appartengono.
Gli uomini imparano a odiare, e se possono imparare
a odiare possono anche imparare ad amare,
perché l’amore, per il cuore umano,
è più naturale dell’odio"
(Nelson Mandela)
  
Che la nostra attesa di un mondo più giusto ed equo non sia solo un sogno ma una realtà che si fa presente tra di noi e che, insieme al Gesù Bambino, nasca e si fortifichi nei nostri animi la certezza che un Regno di pace e giustizia è possibile insieme alla convinzione che il Regno è già in mezzo a noi.

A tutti voi i miei più cari e sinceri auguri
di un buon Natale e di felice Anno Nuovo!

Cercando di aprire nuovi cammini

Tra ottobre e novembre si sono svolte le due tappe di formazione che, con la Pastorale carceraria, abbiamo pensato per gruppi di persone della parrocchia disponibili a visitare i parenti dei detenuti.
È stata una sfida: da un lato la necessità di fornire un appoggio a madri, padri, figli, fratelli che, insieme ai propri familiari, vengono “incarcerati”, isolati nel preconcetto, nell’abbandono da parte della società e delle istituzioni, dall’altro il desiderio di alcune persone di poter aiutare la Pastorale a fare qualcosa per queste famiglie che spesso sono “il vicino di casa”, il “figlio della mia amica”, il “papà del compagno di scuola”.
Il risultato è stato un mini-ciclo di due incontri durante i quali è stata affrontata la tematica del carcere, la vita del detenuto, l’azione della pastorale, la situazione drammatica in cui versa il sistema carcerario di São Luis.
La prima cosa di cui ci siamo resi conto è la necessità di abbattere il preconcetto legato al detenuto, alla sua storia nel mondo nel crimine, lo stigma cha accompagna le famiglie, incolpate in prima istanza di essere la causa del comportamento del figlio o del marito.
Un altro fatto balzato subito agli occhi è che la popolazione sente il desiderio, direi la necessità, di parlare di “Pedrinhas” (il complesso penitenziario di São Luis) di quello che succede al suo interno, delle sue vicende tanto tragiche e famose. In nemmeno dodici mesi più di quaranta morti violente all’interno delle carceri, svariati tentativi di fuga, il rinforzarsi della divisione in fazioni violente e l’intensificazione delle relazioni esterno-interno per quel che riguarda, soprattutto, la gestione del traffico di droga e della vita del crimine cittadino. Il tutto pubblicato sui giornali in maniera sensazionalistica, senza nessuna intenzione di creare una reale opinione pubblica o sensibilizzare sull’argomento.
La gente ha paura: questo è il dato di fatto. Il dieci di ottobre, per esempio, la città ha passato alcuni momenti di panico quando si è sparsa la notizia che, in concomitanza ad alcune confusioni dentro il carcere, nelle strade le stesse gang stavano creando disordini tra la cittadinanza, con assalti e furti. Cosa sia successo nei fatti nessuno ha piena conoscenza: quello di cui la popolazione si è resa conto è l’esistenza di una stretta connessione tra i gruppi organizzati dentro e fuori del carcere.
La reazione a questi fatti, generalmente, è quella di una ulteriore chiusura nei confronti della realtà penitenziaria: “bisognerebbe rinchiuderli tutti e bruciare il carcere”, “a Pedrinhas va solo chi non vale nulla”, “vivono meglio rispetto a come meriterebbero”. Ed è con queste provocazioni che abbiamo cominciato i nostri incontri: da quello che la società pensa e dice rispetto a questa realtà, per stimolare un primo confronto tra i partecipanti, una discussione che sollevasse, innanzitutto, le domande, i dubbi, le impressioni.
Nei due incontri abbiamo, quindi, cercato di conoscere meglio l’attività della Pastorale Carceraria, la parte spirituale così come l’azione che l’agente di pastorale svolge all’interno del carcere e con le famiglie. Essenziale l’intervento di alcuni militanti nei Diritti Umani che ci hanno aiutato a capire meglio cosa stia succedendo dentro il sistema penitenziario maranhense: i diritti non rispettati, le condizioni disumane in cui spesso i detenuti vivono, la realtà umiliante della perquisizione vessatoria a cui sono sottoposti i parenti nei giorni di visita. E hanno stimolato, in questo modo, una riflessione su quale sia la responsabilità del cittadino in tutto questo.
L’invito è stato di visitare e accompagnare le famiglie dei detenuti molto spesso rese fragili e impotenti di fronte alle istituzioni nella difesa dei propri diritti e di quelli dei propri parenti. Il primo fondamentale passo è quello di considerare il detenuto quale portatore di diritti e ripensarlo in maniera diversa, come una persona che, oltre al crimine e all’errore commesso, ha una storia, una famiglia, dei sentimenti, un futuro. Il secondo è la ricerca delle istituzioni atte a difendere questi diritti e garanti della giustizia: occorre buona forza d’animo per non scoraggiarsi e lasciare che le ingiustizie continuino impunite (solo per fornire un dato generale: più della metà dei detenuti in tutto il Brasile sono in attesa di giudizio a volte da mesi e anni, i processi dimenticati e abbandonati, con il risultato di carceri sovrappopolate, con persone che stanno scontando un tempo della pena molto maggiore rispetto a quello che la giustizia preverrebbe).
Interessante, alla fine degli incontri, ascoltare le opinioni dei partecipanti e notare come alcuni preconcetti già cominciavano a cadere, alcuni giudizi erano cambiati: conoscere meglio una realtà ci aiuta, spesso, a creare un’opinione personale al riguardo. Ci rende, probabilmente più “persone”.
Insieme ad alcuni abbiamo già cominciato a fare le prime visite domiciliari con la consegna del libretto che spiega i diritti della persona detenuta e illustra alcuni aspetti della legge penale riguardanti il periodo di detenzione: un inizio per cominciare ad avvicinarsi e dimostrare sostegno e vicinanza.
Una buona collaborazione della Pastorale carceraria, inoltre, sta nascendo con l’Ouvidoria della Defensoria Publica (Ufficio Relazioni con il Pubblico dell’organo deputato a fornire la difesa d’ufficio): sta cominciando, infatti, ad incontrarsi un piccolo gruppo di parenti ed amici di detenuti con l’intenzione di formare un’associazione riconosciuta che possa avere voce di fronte alle istituzioni, nel tentativo di ottenere miglioramenti e sensibilizzare rispetto all’argomento.
L’intenzione del gruppo, inoltre, è anche quello di fornire un appoggio: al momento sono state svolte piccole azioni di fronte ai presidi durante i giorni di visita con la consegna di materiale informativo e biglietti di auguri natalizi.
Il cammino ancora è lungo ma noi continuiamo a credere che le cose possano e debbano cambiare: non possiamo smettere di indignarci di fronte a quello che sta succedendo ogni giorno dentro e fuori i nostri presidi. Non possiamo dimenticarci dei tanti giovani detenuti nelle carceri brasiliane abbandonati nelle peggiori condizioni umane e fingere di non sapere che una “volta fuori” torneranno a commettere crimini molto peggiori di quelli per i quali sono stati condannati. Non possiamo lasciare che madri e figli piangano la morte di mariti e padri assassinati dai compagni di cella per supposte rivalità tra fazioni armate.

Semplicemente non possiamo…




mercoledì 5 giugno 2013

Riflettendo un po' sui diritti umani

I livelli di criminalità violenta sono rimasti elevati. Le autorità hanno risposto ricorrendo spesso a un uso eccessivo della forza e a torture. Giovani uomini di colore hanno continuato a costituire una percentuale sproporzionatamente elevata tra le vittime di omicidio. Sono pervenute notizie di tortura e altri maltrattamenti nel sistema carcerario, caratterizzato da condizioni crudeli, disumane e degradanti. Braccianti agricoli, nativi e comunità quilombola (discendenti di schiavi fuggitivi) sono stati vittime di intimidazioni e aggressioni. Sono rimasti motivo di grave preoccupazione gli sgomberi forzati, sia negli insediamenti urbani che nelle campagne”.
Quello che ho riportato è il paragrafo introduttivo al rapporto 2013 di Amnesty International riguardo alla situazione dei diritti umani in Brasile: in poche righe già si percepisce la criticità della situazione in cui si trova il Paese [1] .
Ora, parlare di diritti umani in Brasile significa aprire una parentesi piuttosto ampia. A livello federale come a quello statale esistono vari uffici e nuclei che agiscono per la tutela dei diritti umani: tra i più importanti menziono la Segreteria dei Diritti Umani dello Stato (SEDH), le sezioni diritti umani di Difensoria Pubblica, Ministero Pubblico e OAB (Ordine degli Avvocati), il Movimento Nazionale dei Diritti Umani (MNDH) e la Società dei Diritti Umani (SMDH).
Parlando di tutela del cittadino esistono, inoltre, nuclei specializzati all'interno della polizia per la difesa della donna e dell'infanzia e adolescenza: esistono l'ECA (Statuto dell'infanzia e dell'adolescente) e la legge “Maria da Penha” che hanno come obiettivo, rispettivamente, la creazione di meccanismi per ridurre la violenza domestica e familiare contro la donna e la protezione integrale del bambino e dell'adolescente.
La Campagna contro la tortura e l'impunità risale al 2001: pensata e promossa dal Movimento Nazionale dei Diritti Umani per implementare misure capaci di rendere effettiva la legge già esistente sulla tortura dentro il sistema di giustizia e di sicurezza pubblica, mise in atto un meccanismo di denuncia dei casi di tortura che ha portato ai giorni nostri alla creazione di Comitati statali per combattere la tortura nel Paese. Con tutto ciò la pratica è ancora una realtà diffusa, soprattutto all'interno delle carceri, ed è molto difficile ottenere che chi commette atti di tortura venga giudicato colpevole e punito.
Passando a descrivere la questione agraria, il cosiddetto “problema della terra”, e la situazione, molto diffusa nello stato del Maranhão, degli espropri forzati o sotto minaccia di morte, cito, solo per dare un'idea, la richiesta da parte di Amnesty International, che risale a pochi giorni fa, di includere nel programma di difesa della Segreteria dei Diritti umani e della Presidenza della Repubblica, un camponês (agricoltore) con la sua famiglia perché minacciati di morte da latifondisti e venditori di legname interessati ad installarsi nella regione.
Ritornando al rapporto di Amnesty e alla realtà quotidiana in cui viviamo, è facile rendersi conto che la sola legislazione e gli interventi pensati non risultano sufficienti a tutelare i cittadini e a contenere una situazione di violenza che, invece di diminuire, sembra aumentare di giorno in giorno.
Le morti per assassinio nella nostra città raggiungono una media di più di due al giorno per una popolazione di un milione di abitanti: numeri assurdi e che spaventano se si pensa che il più delle volte a morire sono giovani sotto i 25 anni e che gli assassini, d'altro canto, rientrano nella stessa fascia d'età.
Sono storie che, purtroppo, ascoltiamo tutti giorni: come quella della tragica morte di un giovane di soli vent'anni che partecipava alla vita della nostra comunità, picchiato a morte in seguito ad una lite, probabilmente legata a questioni di droga.
I Diritti Umani non sono solo una teoria o una realtà distante: vengono, di fatto, ignorati quando un giovane non ha molte altre possibilità di passare il suo tempo libero se non in strada, rischiando di entrare nei giri della droga e dello spaccio; non sono rispettati quando un adolescente resta a casa da scuola per più di un mese a causa di uno sciopero dei professori o, come è successo l'anno passato, un bambino salta lezione per quattro mesi di seguito senza che il sindaco o la governatrice facciano qualcosa; sono dimenticati quando un uomo o una donna restano per giorni senza farmaci e alimentazione all'interno degli ospedali pubblici; vengono negati quando uscire di casa, a qualsiasi ora del giorno, è un pericolo perché i livelli di sicurezza pubblica sono quasi inesistenti.
La realtà di una periferia come quella di Cidade Olimpica è complessa e dura: nell'anonimato della moltitudine il valore del singolo sembra perdere sempre più significato e, inserito nel mare magnum dei problemi, il diritto della persona appare del tutto marginale.
Il vuoto delle istituzioni è un dato di fatto, è concreto: se da un lato, infatti, ci sono la legge e le regole che non vengono sempre rispettate, la corruzione, i meccanismi che non funzionano, dall'altro ci sono le persone, le donne, i bambini, i giovani, gli anziani. Sono  loro che incontriamo tutti i giorni, con le loro necessità reali, con i loro problemi quotidiani. È per loro, perché la dignità della persona venga rispettata, che siamo chiamati a fare qualcosa.
Jean Vanier [2] in un suo libro scrive che “quando ci alleiamo agli esclusi della società, non solo diventiamo capaci di vedere le persone come persone e di unirci a loro nella loro lotta per la giustizia, di lavorare a favore della comunità e dei luoghi di connessione, ma sviluppiamo anche gli strumenti critici per vedere quello che di sbagliato esiste dentro la nostra stessa società (…) Diventare amico di una persona marginalizzata, esclusa, è un atto di auto-esilio dalla maggior parte del mondo. È liberatore, è un atto di libertà”.
In poche parole, vivere e lavorare a fianco di chi è escluso, di chi, come direbbe una certa pedagogia, è oppresso e accettare di lasciarsi toccare dalla vulnerabilità altrui, entrando in contatto, in questo modo, anche con la propria, è già un punto di partenza per il cambiamento. Cambiamento che deve succedere prima di tutto nel nostro modo di pensare, nelle nostre convinzioni, nelle nostre teorie sulla vita, nel nostro modo di vedere la società, nel percepire le reali necessità riordinandole secondo una nuova scala.
Non posso scegliere di allearmi agli esclusi senza, naturalmente, rivedere il contesto in cui questa esclusione si è creata, senza sentire la necessità di occupare il mio posto all'interno del grande quadro: è una decisione privilegiata e credo che questa, probabilmente, sia la più grande rivoluzione che un'esperienza come la nostra ci sta insegnando a compiere.
Quando sentiamo dire che il nostro lavoro, per quanto di buon cuore, resta inutile perché i risultati non sono visibili o perché le persone “non le cambi”, mi sento di rispondere che per chi crede nella persona e nell'essere umano nulla che sia fatto in prospettiva di un miglioramento e con uno spirito di cooperazione sia senza valore, o in vano.
Forse, veramente l'importante è cercare una direzione, cominciare a camminare e  seminare: è vero, noi non raccoglieremo i frutti ma abbiamo fiducia che qualcosa, da qualche parte, crescerà.
[1] solo per fare un rapido confronto bisogna ammettere che la realtà non è così rosea neanche nel nostro di Paese: discriminazione contro gli stranieri, assenza di una legge che sancisca e punisca la tortura, discriminazione di genere contro le donne e omofobia sono alcuni dei punti evidenziati nel rapporto sull'Italia ( per chi voglia approfondire rinvio alla pagina su internet http://rapportoannuale.amnesty.it/2013 ).
[2]  fondatore delle Comunità “Arca” che accolgono persone disabili in tutto il mondo










giovedì 28 marzo 2013

BUONA PASQUA 2013!


FELICE PASQUA!

Maria invece stava all'esterno, vicino al sepolcro, e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l'uno dalla parte del capo e l'altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: "Donna, perché piangi?". Rispose loro: "Hanno portato via il mio Signore e non so dove l'hanno posto". Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù, in piedi; ma non sapeva che fosse Gesù. Le disse Gesù: "Donna, perché piangi? Chi cerchi?". Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: "Signore, se l'hai portato via tu, dimmi dove l'hai posto e io andrò a prenderlo". Gesù le disse: "Maria!". Ella si voltò e gli disse in ebraico: "Rabbunì!" - che significa: "Maestro!”. (Gv 20, 11-16)


Tante sono le croci che incontriamo tutti i giorni nel nostro bairro;
troppe le morti violente di cui sentiamo parlare quasi quotidianamente (i dati divulgati sui giornali parlano di cinquantacinque omicidi in tutta São Luis solo nel mese di marzo 2013);
tante le storie che ascoltiamo di persone che sono private di un'assistenza sanitaria adeguata o di bambini che non ricevono un'istruzione minimamente degna solo perchè quella offerta dal comune è gratuita e, quindi, di bassissimo livello;
molte le storie di giovani entrati nel mondo del crack e della droga e delle loro famiglie messe in ginocchio dalla sofferenza e dall'impotenza...

Davanti a tutto questo la Ressurrezione di Cristo accende in noi la speranza e ci invita, come Maria, a non smettere di piangere di fronte ai luoghi bui e vuoti che abitano le nostre città e le nostre giornate.
Accettare di rimanere davanti al sepolcro vuoto significa continuare a cercare la presenza divina anche dove ci sembra di incontrare solo assenza e mancanza di significato.
Che tutti noi possiamo essere capaci di riconoscere la voce di Cristo Risorto distinguendo i segni posti sul cammino per dire con gioia, insieme a Maria, “Rabbunì! Maestro!”

A tutti voi il mio augurio di una felice Pasqua!







martedì 25 dicembre 2012

BUON NATALE!


Si avvicina il Natale: raggiunga ciascuno di voi, amici e parenti, il nostro augurio di un Natale vero e pieno di gioia!

“Ha fatto cadere dentro di me,
nel luogo più ignorato e più profondo,
una parola in cui palpita il mistero,
una parola nel mio grembo per donarla al mondo.
Come potrà uscire da me questa parola,
da me che non sono né grande né sapiente?
Ma lo Spirito Santo
– io sono la sua serva –
se vuole che nasca da me, metterà la sua mano.
La vergine Maria trabocca di felicità.
La vergine Maria si trova immersa
nella dolcezza di Dio.
I rovi sono in fiore
intorno al giardino
intorno alla mia gioia.”

Poesia di Marie Noël (1883-1967)



Ero carcerato e mi siete venuti a visitare” (scrive Maria)

Secondo  dati   ufficiali  al   giugno   del   2011   la   popolazione   carceraria   del   Brasile   era   di 496.251 carcerati, 40% dei quali provvisori, in attesa di giudizio: tra il 2000 e il 2010, il 
numero di carcerati in tutto il Paese è raddoppiato di numero.
Nel Maranhão la stima è di circa 6.000 detenuti; le cause principali di detenzione sono, in  ordine: spaccio di droga, furto e assalto, uso di armi e omicidio.

Una cosa è certa: la sovrappopolazione carceraria rimane una realtà in tutto il Brasile, e le condizioni a cui sono costretti a vivere detenuti e detenute sono, il più delle volte disumane e impietose.

È molto recente la dichiarazione del ministro della giustizia Josué Eduardo Cardozo che, parlando delle condizioni del sistema penitenziario brasiliano, ha detto: “preferirei morire piuttosto che scontare la pena in alcuni presidi brasiliani, dove persone sono accalcate senza nessuna dignità, vivendo tra le feci, subendo aggressioni e senza i diritti umani rispettati”.

Risale al 2008 la CPI (Commissão Parlamentar de Inquérito - Commissione Parlamentare d’inchiesta   )   promossa   dal   governo   federale   per   verificare   la   situazione   delle   carceri brasiliane:   corruzione,   impunità,   crimine   organizzato   all’interno   stesso   delle   carceri, violazione dei diritti umani basilari sono alcuni degli elementi rilevati durante gli otto mesi di attività della Commissione (1)

Nel 2011 Amnesty International denunciava ancora l’utilizzo di pratiche di tortura da parte di forze dell’ordine e di funzionari all’interno delle carceri e delle stazioni di polizia, al momento dell’arresto, durante gli interrogatori e lungo il periodo di detenzione.
In generale si può affermare che il problema del sistema penitenziario, pur essendo al centro di molti discorsi, rimanga, a tutti gli effetti, ai margini degli impegni politici e degli interessi della società.

E “ai margini”, effettivamente,   os   presos   (“i   presi”   ossia   i   detenuti)   lo   sono    anche fisicamente: il carcere di São Luis, per esempio, si trova a 15 kilometri dal centro, lungo la strada  che  conduce  fuori dell’isola, in  un’area di  122  ettari dove   è stato  costruito  un complesso che riunisce in pochi kilometri quadrati la maggioranza dei centri di detenzione di tutto lo Stato. È il famoso “Complexo de Pedrinhas”.

Quando ho iniziato a visitare il presidio femminile con il gruppo di Pastorale Carceraria non sapevo bene cosa mi sarebbe aspettato, cosa avrei dovuto fare o dire.
Non sapevo cosa mi spingeva a farlo: forse la voglia di conoscere una realtà nuova, forse il   desiderio di avvicinarmi per capire se il reo di crimine è spaventoso come ce lo figuriamo. Forse, semplicemente, la curiosità di vedere come sia possibile sopravvivere privati della libertà: difficile per chiunque immaginare una vita rinchiusa tra quattro mura, vedendo il sole   attraverso le grate anche durante l’ora d’aria e pensare che questa condizione possa durare mesi e anni.



-Il complesso di Pedrinahs come appare dall'esterno -

Nella testa avevo i racconti delle gente: le storie della ribellione successa un paio di anni fa  all’interno  del  carcere maschile, le descrizioni  delle  donne  costrette  a  perquisizioni vessatorie quando visitano i parenti, i pregiudizi nei confronti del carcere, recipiente dei peggiori delinquenti e “scarti della società”. Insomma, nulla di buono: “meglio che restino là dove non li possiamo vedere!”.
Quello che ho incontrato, nei fatti, sono state persone con una vita nel mondo fuori, e costrette   a convivere in uno spazio ristretto con gente mai conosciuta prima per ventiquattro ore al giorno: donne con una storia, dei figli, una famiglia.
Anche se, per fortuna, le condizioni abitative non sono pessime e disumane come in altri presidi, le storie che ascoltiamo sono sempre di sofferenza, sono parole tristi, a volte angosciate. 

Il sistema progressivo di esecuzione della pena, rende la possibilità di abbreviare il tempo di   detenzione   una   speranza   che   incentiva   molte   a   partecipare   delle   poche   attività promosse dalla direzione e a mantenere una buona condotta: ciò nonostante, il tempo in un carcere trascorre sempre lento e, vista la precarietà di vita dentro di una cella, gli stati d’animo negativi, la disperazione e lo sconforto bussano alla porta quasi tutti i giorni.
Nonostante il proposito di cambiare condotta per non finirci di nuovo in un posto come quello, alcune, purtroppo, in carcere ci sono già passate più di una volta: d’altronde, è proprio il contesto sociale in cui vivono e al quale ritornano, che induce, nella prevalenza dei casi a compiere il crimine (spesso legato allo spaccio di droga e sostanze stupefacenti) e a ricaderci nel giro di poco tempo. 
Sono persone, il più delle volte, già escluse dai cosiddetti circoli sociali nel mondo esterno, di   estrazione sociale bassa, povera, poco o per nulla scolarizzata,  spesso afro-discendente.
Nell’ala delle “provvisorie”, ad esempio, la maggioranza delle donne è in attesa da mesi di una sentenza (il tempo massimo dovrebbe essere di tre mesi): molte si affidano alla difesa d’ufficio   perché pagare un avvocato è privilegio solo  di chi può permetterselo e già sappiamo che chi i soldi ce li ha, di solito, in carcere non ci finisce nemmeno.
Quelle che facciamo sono visite semplici: una chiacchiera, una canzone, alle volte la celebrazione della Messa. 
Gli incontri avvengono durante il  banho de sol  (l’ora d’aria): metà delle donne, di solito, può uscire dalle celle, mentre le altre restano “dentro”.
La nostra è una presenza poco rumorosa, discreta: ascoltare una storia, dire una parola di conforto, dare un abbraccio durante un momento difficile ma essere anche un sostegno, informarsi dall’assistente sociale del perché una ragazza detenuta non è stata ancora visitata dal medico, portare uno spazzolino o dei vestiti a chi non sta ricevendo visite dei parenti. Tutte piccole azioni che, però, possono fare la differenza.

In tutto ciò quello che sto cercando di imparare è un nuovo modo di prendermi cura delle persone  che  incontro, senza  porre troppo l’attenzione  su quello che di male abbiano compiuto ma guardando con occhi diversi donne e ragazze che, nella loro vulnerabilità, stanno passando attraverso sofferenze e difficoltà.

Commettere un crimine e infrangere la legge richiede un risarcimento, un pagamento alla società: non è semplice superare l’ostacolo del preconcetto che riguarda un detenuto. 
Porre l’attenzione sulla persona  prima che sul crimine che ha commesso non è un passaggio facile né immediato: in qualche modo e in certi momenti la legge de taglione prende il sopravvento nei nostri ragionamenti. 
“Andare oltre” l’azione compiuta per guardare la storia, la vicenda umana, i sentimenti della persona che, nella maggioranza delle volte, coltiva un’immagine di sé negativa e autodistruttiva significa, prima di tutto, riporre fiducia in lei credendo che un futuro diverso e migliore può essere contemplato.
La Pastorale Carceraria, per quanto riconosciuta e rispettata, non è che un piccolo colibrì che tenta di spegnere un incendio: eppure con la sua presenza costante e fedele nelle carceri deve continuare ad affermare che compimento della pena non significa solo esecuzione di un castigo(2). 

Il periodo di detenzione dovrebbe trasformarsi in una possibilità effettiva di redenzione e educazione per queste persone: e il carcere, così come è pensato, è molte volte solo luogo privilegiato per formare delinquenti e criminali.
Mi piacciono le parole che ho letto poco tempo fa in un libro che affrontava l’argomento del sistema penitenziario: “È al cuore del delinquente che, per guarirlo, dobbiamo arrivare(…) La mancanza di amore non si riempie se non con l’amore. L’amore con l’amore si paga. La cura di cui il prigioniero ha bisogno è una cura di amore”.

(1) se qualcuno fosse interessato può guardare:
      http://www.youtube.com/watch?v=uKD0s0Qhxd4
(2) la storia racconta che un giorno nella foresta scoppiò un incendio talmente vasto che nessuno riusciva a spegnerlo: il colibrì, pur nella sua piccolezza, cominciò a volare dalla cascata al fuoco trasportando semplici gocce d’acqua. Il suo coraggio fu esempio per il resto degli animali a fare la loro   parte   e   a   salvare,   infine,   la   foresta.   L’insegnamento   è   che   non   importa   se   l’incendio   si spegnerà, l’importante è fare tutto quel che è possibile perché questo avvenga.