È stata una sfida: da un lato la
necessità di fornire un appoggio a madri, padri, figli, fratelli che, insieme
ai propri familiari, vengono “incarcerati”, isolati nel preconcetto,
nell’abbandono da parte della società e delle istituzioni, dall’altro il
desiderio di alcune persone di poter aiutare la Pastorale a fare qualcosa per
queste famiglie che spesso sono “il vicino di casa”, il “figlio della mia
amica”, il “papà del compagno di scuola”.
Il risultato è stato un mini-ciclo di
due incontri durante i quali è stata affrontata la tematica del carcere, la
vita del detenuto, l’azione della pastorale, la situazione drammatica in cui
versa il sistema carcerario di São Luis.
La prima cosa di cui ci siamo resi
conto è la necessità di abbattere il preconcetto legato al detenuto, alla sua
storia nel mondo nel crimine, lo stigma cha accompagna le famiglie, incolpate
in prima istanza di essere la causa del comportamento del figlio o del marito.
Un altro fatto balzato subito agli
occhi è che la popolazione sente il desiderio, direi la necessità, di parlare
di “Pedrinhas” (il complesso penitenziario di São Luis) di quello che succede
al suo interno, delle sue vicende tanto tragiche e famose. In nemmeno dodici
mesi più di quaranta morti violente all’interno delle carceri, svariati
tentativi di fuga, il rinforzarsi della divisione in fazioni violente e l’intensificazione
delle relazioni esterno-interno per quel che riguarda, soprattutto, la gestione
del traffico di droga e della vita del crimine cittadino. Il tutto pubblicato
sui giornali in maniera sensazionalistica, senza nessuna intenzione di creare
una reale opinione pubblica o sensibilizzare sull’argomento.
La gente ha paura: questo è il dato di
fatto. Il dieci di ottobre, per esempio, la città ha passato alcuni momenti di
panico quando si è sparsa la notizia che, in concomitanza ad alcune confusioni
dentro il carcere, nelle strade le stesse gang
stavano creando disordini tra la cittadinanza, con assalti e furti. Cosa sia
successo nei fatti nessuno ha piena conoscenza: quello di cui la popolazione si
è resa conto è l’esistenza di una stretta connessione tra i gruppi organizzati
dentro e fuori del carcere.
La reazione a questi fatti, generalmente,
è quella di una ulteriore chiusura nei confronti della realtà penitenziaria:
“bisognerebbe rinchiuderli tutti e bruciare il carcere”, “a Pedrinhas va solo
chi non vale nulla”, “vivono meglio rispetto a come meriterebbero”. Ed è con
queste provocazioni che abbiamo cominciato i nostri incontri: da quello che la
società pensa e dice rispetto a questa realtà, per stimolare un primo confronto
tra i partecipanti, una discussione che sollevasse, innanzitutto, le domande, i
dubbi, le impressioni.
Nei due incontri abbiamo, quindi,
cercato di conoscere meglio l’attività della Pastorale Carceraria, la parte
spirituale così come l’azione che l’agente di pastorale svolge all’interno del
carcere e con le famiglie. Essenziale l’intervento di alcuni militanti nei
Diritti Umani che ci hanno aiutato a capire meglio cosa stia succedendo dentro
il sistema penitenziario maranhense: i diritti non rispettati, le condizioni
disumane in cui spesso i detenuti vivono, la realtà umiliante della
perquisizione vessatoria a cui sono sottoposti i parenti nei giorni di visita.
E hanno stimolato, in questo modo, una riflessione su quale sia la
responsabilità del cittadino in tutto questo.
L’invito è stato di visitare e
accompagnare le famiglie dei detenuti molto spesso rese fragili e impotenti di
fronte alle istituzioni nella difesa dei propri diritti e di quelli dei propri parenti.
Il primo fondamentale passo è quello di considerare il detenuto quale portatore
di diritti e ripensarlo in maniera diversa, come una persona che, oltre al
crimine e all’errore commesso, ha una storia, una famiglia, dei sentimenti, un
futuro. Il secondo è la ricerca delle istituzioni atte a difendere questi
diritti e garanti della giustizia: occorre buona forza d’animo per non
scoraggiarsi e lasciare che le ingiustizie continuino impunite (solo per
fornire un dato generale: più della metà dei detenuti in tutto il Brasile sono
in attesa di giudizio a volte da mesi e anni, i processi dimenticati e
abbandonati, con il risultato di carceri sovrappopolate, con persone che stanno
scontando un tempo della pena molto maggiore rispetto a quello che la giustizia
preverrebbe).
Interessante, alla fine degli incontri,
ascoltare le opinioni dei partecipanti e notare come alcuni preconcetti già
cominciavano a cadere, alcuni giudizi erano cambiati: conoscere meglio una
realtà ci aiuta, spesso, a creare un’opinione personale al riguardo. Ci rende,
probabilmente più “persone”.
Insieme ad alcuni abbiamo già
cominciato a fare le prime visite domiciliari con la consegna del libretto che
spiega i diritti della persona detenuta e illustra alcuni aspetti della legge
penale riguardanti il periodo di detenzione: un inizio per cominciare ad
avvicinarsi e dimostrare sostegno e vicinanza.
Una buona collaborazione della
Pastorale carceraria, inoltre, sta nascendo con l’Ouvidoria della Defensoria Publica (Ufficio
Relazioni con il Pubblico dell’organo deputato a fornire la difesa
d’ufficio): sta cominciando, infatti, ad incontrarsi un piccolo gruppo di
parenti ed amici di detenuti con l’intenzione di formare un’associazione
riconosciuta che possa avere voce di fronte alle istituzioni, nel tentativo di
ottenere miglioramenti e sensibilizzare rispetto all’argomento.
L’intenzione del gruppo, inoltre, è
anche quello di fornire un appoggio: al momento sono state svolte piccole
azioni di fronte ai presidi durante i giorni di visita con la consegna di
materiale informativo e biglietti di auguri natalizi.
Il cammino ancora è lungo ma noi
continuiamo a credere che le cose possano e debbano cambiare: non possiamo
smettere di indignarci di fronte a quello che sta succedendo ogni giorno dentro
e fuori i nostri presidi. Non possiamo dimenticarci dei tanti giovani detenuti
nelle carceri brasiliane abbandonati nelle peggiori condizioni umane e fingere
di non sapere che una “volta fuori” torneranno a commettere crimini molto
peggiori di quelli per i quali sono stati condannati. Non possiamo lasciare che
madri e figli piangano la morte di mariti e padri assassinati dai compagni di
cella per supposte rivalità tra fazioni armate.
Semplicemente non possiamo…